Daniela Pintor è un’instancabile volontaria che da anni si prende cura di oltre un centinaio di gatti, dislocati in tre borgate marine della Sardegna: S’Anea Scoada, Sa Rocca Tunda e Mandriola. Nonostante il mancato riconoscimento giuridico delle colonie feline e i numerosi attacchi vandalici contro le sue “Micio-Favelas”, Daniela Pintor non si arrende: “È una questione di giustizia”.
Ci sono persone che si battono ogni giorno, con costanza e impegno, dedicando la loro vita agli ultimi. Daniela Pintor è una di queste. Il suo grande amore? I gatti di nessuno, che popolano le borgate marine della provincia di Oristano. Prima del suo arrivo, in estate gli animali riuscivano a sopravvivere grazie agli avanzi e alla carità dei turisti. La fine della bella stagione, però, portava con sé anche fame, malattie e morte, nel pieno dell’indifferenza generale. Dopo essere venuta a conoscenza di questa orrenda realtà, Daniela Pintor ha deciso di spezzare questo macabro cerchio, dando avvio al suo progetto: le Micio-Favelas.
Laura: Ciao Daniela, come nasce la tua passione e come sei entrata nel mondo del volontariato?
Daniela: Ho sempre avuto la passione per i gatti, con cui condivido la mia vita da quando avevo 2 anni, fino ad oggi che ne ho 58. Oltre a questa mia indole da “gattofila”, ho sviluppato l’amore per il volontariato all’età di circa 25 anni, quando per la prima volta ho conosciuto la realtà di volontariato di Largo di Torre Argentina a Roma, dove mi trovavo per la mia tesi di laurea. Lì è nata una passione per il lavoro che le volontarie svolgevano per i gatti: tutte le nozioni di gestione delle colonie provengono da quella esperienza.
Laura: Parliamo delle Micio-Favelas: quando nascono e a cosa si deve questo nome così particolare?
Daniela: Le Micio-Favelas nascono 17 anni fa, quando trovai alcuni gatti per puro caso durante una giornata in spiaggia. Le persone che durante l’estate li sfamavano me li presentarono, raccontandomi che durante l’inverno nessuno li accudiva. Trattandosi di un villaggio di vacanze, la gran parte dei mici durante l’inverno moriva per fame, malattie, attaccati dai cani. All’estate successiva arrivavano solo i più forti. A me si spezzò il cuore. Così, dalla giornata stessa iniziai a organizzarmi, caricando dei sacchi di crocchette. In un primo momento, le lasciai a una signora anziana che abitava lì anche durante l’inverno; poi, per riuscire a monitorarli meglio, iniziai ad andarci io. Da lì ebbe inizio il mio impegno. Sono partita con circa 20 gatti, poi per curiosità ne ho cercati altri e mi sono resa conto che ce ne erano molti, molti di più. Ho continuato a cercarli per le stradine e per i viottoli, fino a quando non ho trovato almeno una ottantina di gatti nella zona di Sa Rocca Tunda. Dopo aver sterilizzato tutti i mici di quell’area, mi sono spostata nelle altre due borgate marine che attualmente seguo, ma credo che oltre a quelli di cui tuttora mi prendo cura ce ne siano degli altri. Io sono l’unica che ha provato a risolvere il problema. Il nome Micio-Favelas è nato per una battuta: le favelas, ovvero le casette dei poveri, sono nate per contrasto con i micio-ricchi, ovvero i gatti che hanno un padrone, un divano, una pappa buona. Il mio obiettivo era di trasformare i mici delle favelas in micio-ricchi.
Laura: Com’è la vita da volontaria? Quanto tempo richiede l’attività a cui ti dedichi?
Daniela: All’inizio il progetto ha richiesto molto tempo, perché non ero organizzata. Ho cominciato portando piattini, vaschette e via dicendo. Mi sono resa conto abbastanza in fretta che, somministrato così, il cibo non durava: ci sono cani, cornacchie, gabbiani, persone antipatiche che prendono a pedate le ciotole. Da lì è nata l’idea di custodirlo all’interno di alcune strutture. Prima ho comprato delle cassapanche leggere, poi le ho fatte costruire su misura dal muratore, in modo che fossero più resistenti. Così facendo, anziché andare sul posto tutti i giorni riesco ad andare un giorno sì e un giorno no: un giorno si somministra l’umido e all’interno della cassapanca viene lasciata una vascona di crocchette che serve per l’indomani. Non è facile: le borgate marine distano 25 km da dove abito e per me, che non ho la patente, è un impegno gravoso. Fortunatamente ho l’aiuto di “fidi scudieri”, che mi danno una mano in questo.
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Laura: Le Micio-Favelas sono diventate note alle cronache per aver subito degli atti vandalici. Ci vuoi raccontare qualche episodio particolare che è successo nel corso degli anni?
Daniela: Almeno per un anno, a distanza di 2 mesi, c’era un nuovo atto vandalico a carico delle installazioni. Un periodo hanno vandalizzato la postazione di S’Anea Scoada, perché le casse in legno non erano gradite. Si è parlato addirittura di denunciarmi per abuso edilizio. Una volta hanno dato fuoco alle installazioni, un’altra le hanno buttate dalla scogliera. Due volte sono state imbrattate con olio esausto di motore e una volta con olio di pesce fritto. Hanno rovinato tutto quello che c’era all’interno delle casse, comprese le copertine. Alcune di queste strutture, infatti, sono molto grandi e all’interno possono ospitare anche un angolo per dormire. L’anno scorso, in un’altra località, ho subito continui attacchi verbali, durati ben 3 mesi. Hanno addirittura lanciato la cassapanca in un campo. Insomma, c’è un bel nucleo di persone intolleranti che rende la vita difficile.
Laura: Ad oggi le Micio-Favelas non sono ufficialmente riconosciute come colonie feline. Per questo, tu hai lanciato una petizione indirizzata al sindaco di San Vero Milis al fine di ottenere finalmente uno status giuridico ufficiale. Qual è la ragione per cui dal lontano 2005 ad oggi non è cambiato nulla e qual è l’atteggiamento delle istituzioni verso il tuo operato? Hai ricevuto sostengo e riconoscimento per ciò che fai?
Daniela: Nel riconoscimento delle colonie feline, naturalmente, ho seguito per prima cosa le vie legali: ho presentato la domanda più volte. A volte l’ho fatto come singola volontaria e altre con il supporto di una grossa associazione alle spalle come l’ENPA. Non sono mai state riconosciute, neanche quando sono state presentate come colonie ENPA. Inizialmente, la motivazione del mancato riconoscimento era che le colonie insistono su un’area cosiddetta SIC (Sito di Interesse Comunitario), dove nidificano alcune specie di uccelli protetti. Ho fatto presente che l’obiezione secondo me era campata per aria: senza sterilizzare i gatti, i predatori aumenterebbero di numero, anziché limitarsi. Tuttavia, mi è stato risposto che la legge era quella e non ci si poteva far nulla. In realtà, da una indagine condotta insieme ai ragazzi della LAV si è scoperto che solo una delle mie colonie risiede in parte in una delle cosiddette aree SIC, mentre le altre sono tutte all’esterno. Quindi non ci sarebbero ostacoli di nessun tipo, ma l’ultima domanda per il riconoscimento che ho presentato qualche mese fa, con un nuovo censimento aggiornato, non ha ottenuto neanche risposta.
Laura: Speriamo che questa intervista riesca a far arrivare la tua voce e l’importanza di quello che fai a chi sarebbe in grado di intervenire in questa situazione davvero spiacevole.
Daniela: Me lo auguro: ormai il progetto di sterilizzazione l’ho portato quasi al completamento da sola. Negli anni ho sterilizzato circa 250 gatti, l’anno scorso ho sterilizzato gli ultimi 90. Il problema non è neanche più quello di dire che ho bisogno del supporto della ASL per sterilizzare. Il punto è che non è giusto che non venga riconosciuto legalmente il diritto di questi gatti di esistere e vivere in un posto dove sono sempre stati, senza essere perseguitati: è una questione di giustizia.
Laura Bellucci
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