Di fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici e alle ripercussioni sul territorio, a che punto sta l’attenzione rivolta all’ecosistema e i provvedimenti per tutelare la fauna selvatica?
Silenziosi osservatori di un cambiamento a livello climatico che sta modificando le condizioni vitali in buona parte del pianeta. Scrutando l’orizzonte, assaporando un clima autunnale mite, c’è chi apprezza le temperature gradevoli della stagione, laddove ad un livello più profondo, l’intuizione suggerisce la sensazione che qualcosa non sta funzionando.
E gli animali in tutto ciò? Amoreaquattrozampe ha interpellato alcuni esperti tra i quali il Prof. Antonio De Marco, fondatore e responsabile del Parco Abatino nella Provincia di Rieti, un parco faunistico, centro d’eccellenza dove approdano anche studenti Erasmus, con competenze Cras, Centro di recupero animali selvatici, per uno stato di fatto sulla situazione fauna selvatica nel belpaese alla luce dei capovolgimenti climatici catastrofici.
Da una semplice domanda, ovvero “se ci sono dei ritardi negli animali che vanno in letargo” con tutte le conseguenze connesse ovvero il reperire il cibo per prepararsi alla stagione, il metabolismo per contrastare le temperature fredde, l’equilibrio prede predatori, siamo arrivati ad un quadro piuttosto preoccupante e complesso sul tema.
Secondo De Marco e altri esperti è prematuro accertare le conseguenze di questi cambiamenti con l’innalzamento delle temperature e degli effetti sulla fauna. Al momento non ci sono studi scientifici né tantomeno dati alla mano per confermare quanto sta accadendo.
Il letargo degli animali varia in base alle regioni e nelle regioni più centrali o al Sud dove il clima invernale non ha temperature rigide, si parla di “mezzo letargo” di alcune specie. Nello specifico, nelle aree centrali, specie come istrici, tassi, scoiattoli o tartarughe -anche se in allo stato selvatico non è dato sapere se vi siano tartarighe- sono anche propense a non andare in letargo.
Tuttavia, tra le specie che ne risentono maggiormente, ha sottolineato De Marco sono quelle che si nutrono di piccole prede come le lucertole o appunto le stesse tartarughe, le quali non avendo preparato il metabolismo per la stagione in cui vi è carenza di cibo, rischiano di morire.
Di fronte ai cambiamenti climatici, De Marco esprime soprattutto preoccupazione per la siccità. Nel 2017, nella provincia di Rieti c’è stata una vera e propria strage di anfibi. Le altri specie, come cinghiali, lupi, volpi ecc sono state invece costrette a scendere a valle, esponendosi a rischi in prossimità di centri urbanizzati.
De Marco ha infatti evidenziato quanto le istituzioni dovrebbero pensare ad uno sviluppo strategico su questo tema. Non si tratta solo di siccità, per cui andiamo incontro alla desterificazione di aree centrali e a sud del paese, ma anche degli effetti collaterali, collegati ai fenomeni di maltempo improvvisi e sempre più violenti. Il problema si estende alla tutela dell’ambiente e alla conseguente gestione delle aree boschivi, per cui si rivelerebbe necessario rividere i piani di concessione per il taglio dei boschi.
Da anni si parla della teoria di Gaia, dell’effetto “farfalla” e di molti altri argomenti relativi al capovolgimento in atto.
“Al momento è prematuro, siamo nella fase iniziale per capire gli effetti sugli animali o sul loro letargo”. Afferma De Marco, ammonendo tuttavia che le istituzioni dovrebbero invece iniziare a prevedere e a discutere su come orientarsi per tutelare le specie.
A queso si aggiunge, la direttiva europea riguardo all’eradicazione di specie non autoctone. Specie come le nutrie o lo scoiattolo grigio, la tartaruga scripta andrebbero pertanto eliminate. Ovvero, i governi dovrebbero attuare dei piani abbattimento. Così come è stato per il Piano Lupi, la riposta verte sempre sull’abbattimento degli esemplari, senza offrire alternative, in quanto non sono effettuati o né tantomeno sollecitati di concerto con centri di ricerca, studi al riguardo.
A livello individuale, ovvero regionale ma anche provinciale, sono stati realizzati con successo alcuni progetti per contenere ad esempio la riproduzione incontrollata dei cinghiali. Progetti semplici con metodi di sterilizzazioni non invasivi allo stato selvatico che hanno funzionato. Per cui ci sarebbero delle soluzioni alternative. Ma il discorso sembra essere sempre lo stesso. Ovvero, la convenienza economica, la gestione a tutti livelli, affidata a personale incompetente e forz’anche corruzione, soprattutto in alcune regioni.
In tutto ciò chi è responsabile della fauna selvatica? Quali sono le competenze o i referenti ai quali rivolgersi?
Quello che emerge è una palese preoccupazione per quanto riguarda le competenze, soprattutto nel caso di soccorso degli animali selvatici.
“Da quando la forestale è entrata nel Corpo dei Carabinieri- sottolinea l’esperto- nello specifico nel Lazio, ma sicuramente anche in altre Regioni a livello nazionale, non si sa più chi deve intervenire in caso di recupero e di soccorso di una specie selvatica, in pericolo o vittima di un incidente”.
Nella maggior parte dei casi, un semplice cittadino non sa chi chiamare. Non si tratta unicamente di disinformazione ma di disorganizzazione e di assenza di normative che regolamentano il soccorso animali selvatici. Oppure, appaltando tramite bandi il soccorso animali e che in alcuni casi potrebbe essere affidato a personale incompetente.
I cittadini non sono a conoscenza dei Centri Cras, né tantomeno i Cras sono strutturati per questo servizio, né tantomeno hanno fondi a disposizione per poterlo attuare. Per non parlare del fatto ad esempio che in tutto il Lazio, ci sono solo tre CRAS, senza contare un altro centro dedicato unicamente al recupero dei rapaci e che un centro Lipu è stato costretto a chiudere per carenza di fondi, provvedendo a spostare gli uccelli in altri centri.
“Lo facciamo in molti casi a titolo personale per gli animali”, afferma De Marco. Ovvero, gli operatori dei Centri Cras e volontari, spesso rispondono loro stessi a chiamate di soccorso animali, provvedendo a proprie spese al recupero degli esemplari feriti e alle loro cure.
“Abbiamo salvato un’istrice che ci hanno portato. Aveva un arto fratturato e abbiamo provveduto a portarla presso una clinica. Le operazioni possono durare anche 5 ore, con uno staff veterinario che a volte arriva a 3-4 veterinari. In questo caso è stato ricostruito l’arto”. Racconta De Marco. In un altro caso, lo staff del Parco Abatino ha provveduto a recuperare un lupo investito da un treno. “Chiamati a notte fonda, siamo andati a recuperare l’esemplare, lo abbiamo portato in clinica, ma dalle radiografie era impossibile salvarlo, aveva fratture alle vertebre che avevano intaccato il midollo spinale e purtroppo l’esemplare è stato sottoposto all’eutanasia”. Interventi che i centri effettuano a proprie spese, dovendo giustificare in un groviglio burocratico ogni movimento. In alcuni casi, in base alle norme in vigore, ci sono delle limitazioni per le quali gli stessi Cras non potrebbero intervenire come ad esempio nel caso di specie esotiche per le quali ci sono altri tipi di centri specializzati e non in tutte le province.
Una situazione che da Nord a Sud della penisola sta diventando intollerabile e insostenibile da un punto di vista della burocrazia, delle ristrettezze economiche e dell’assenza di normative che regolamentano le competenze di chi opera per la tutela degli animali. Il minitero dell’agricoltura è il referente Cras, i centri di recupero fauna selvatica rispondono al settore Caccia e Pesca, altre norme sono invece di rivelanza del ministero della salute o dell’istruzione o anche dell’ambiente.
Lo scenario è allarmante tanto più se si considera che il peggio deve ancora arrivare da un punto di vista dei cambiamenti climatici che richiederanno nuove tutele. L’indifferenza delle istituzioni in materia è alquanto assordante. Di fronte ad una semplice domanda sul letargo, si è delineato un quadro sconcertante, scoprendo che “tutti parlano di tutela degli animali e del loro benessere”, ma chi se ne occupa veramente, viene lasciato solo e spesso attaccato dalle stesse istituzioni. Che siano piccoli centri Cras che centri a cui fanno capo anche importanti associazioni come la Lipu, il panorama è drammatico.
Forse è giunto il momento da parte del Governo e di chi di dovere di portare sul tavolo delle trattative esperti, organizzazioni, associazioni, centri di ricerca, referenti dei parchi naturalistici e dei centri Cras, per individuare con chi ha competenze reali e ogni giorno opera sul campo, un piano strategico in modo da mettere in atto una vera tutela delle specie che non sia solo focalizzata sull’abbattimento, ma preventiva.
C.D.
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