L’art. 638 del codice penale disciplina il reato di uccisione o danneggiamento di animali altrui: qual è la pena comminata al colpevole?
La fattispecie di cui all’art. 638 del codice penale, a differenza di quella disciplinata dall’art. 544-bis (Uccisione di animali) sembra privilegiare l’aspetto puramente patrimoniale legato alla proprietà dell’animale piuttosto che l’integrità psicofisica di quest’ultimo. Quali sono i rapporti tra le due figure di reato?
Animale come res o soggetto?
L’animale è una res giuridica, facente parte del patrimonio del suo proprietario; e come tale è suscettibile di assumere un valore economico e di essere venduto.
Allo stesso tempo, tuttavia, vi sono dei limiti nel potere di godimento che il titolare ha sull’animale; limiti che si rinvengono nella tutela dello stesso quale essere vivente e senziente.
L’art. 638 del codice penale prevede e punisce il reato di uccisione o danneggiamento di animali altrui: il comma 1 stabilisce che colui che, senza necessità, uccide o rende inservibili o deteriora gli animali altrui è punito con la pena della reclusione fino ad un anno, o con una multa fino a 309 euro.
Il reato è punibile a querela della persona offesa, ovvero il proprietario dell’animale. La pena prevista va dai sei mesi ai quattro anni di reclusione se invece l’azione delittuosa colpisce tre o più capi di bestiame; in questo caso si procede d’ufficio nei confronti del colpevole.
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Il rapporto tra le due figure di reato
L’art. 544-bis, invece, punisce colui che uccide un animale con crudeltà o senza necessità. Viene da chiedersi quale, nell’ipotesi di uccisione di animali altrui non dettata da alcuna necessità, sia la norma applicabile, e quale sia il rapporto che lega i due articoli.
Appare fin troppo evidente che l‘art. 638 mostri un’impostazione tradizionalistica del rapporto essere umano – animale; quest’ultimo costituisce una proprietà del primo, e l’uccisione va a configurarsi quale danno patrimoniale.
L’art. 544 bis fa parte del Titolo IX-bis del libro secondo del codice (Dei delitti contro il sentimento per gli animali) che ad oggi, legislativamente parlando, rappresenta il più alto grado di tutela di cui gode l’animale; a cui viene negato il riconoscimento di qualsivoglia soggettività, ma la cui integrità psicofisica viene protetta, ricorrendo ad una sorta di fictio giuridica: ciò che tutela la norma è il sentimento di pietà che per esso l’essere umano prova.
Quale delle due norme trova applicazione nell’ipotesi in cui venga a verificarsi l’ipotesi delittuosa? Circoscrivendo l’analisi all’ipotesi base prevista dal comma 1 dell’art. 638 cp, si tenga presente un elemento molto importante; quest’ultimo è punibile su querela della persona offesa, l’art. 544-bis, invece, è procedibile d’ufficio.
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Inoltre il primo comma dell’art. 638 cp non è applicabile laddove la condotta costituisca un reato più grave; e quello contemplato dall’art. 544-bis (che, rammentiamo, è procedibile d’ufficio), lo è. Pertanto è lecito chiedersi se l’enunciato ex art. 638 c°1 cp possa considerarsi tacitamente abrogato.
Rimane da vagliare la questione relativa al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del reato. Come noto, il nostro ordinamento prevede, in ogni caso, la risarcibilità del danno patrimoniale ( e dunque del valore dell’animale quale res).
Per ciò che concerne il danno morale (per la perdita del rapporto affettivo con il proprio animale d’affezione) parte della giurisprudenza ne riconosce la risarcibilità, purché il pregiudizio venga provato.
È chiaro che l’art. 638 cp è senza ombra di dubbio riconducibile alla tutela del danno patrimoniale; e, per quanto possa considerarsi una figura delittuosa e per certi versi oramai anacronistica, data la mutata sensibilità verso il ruolo della figura dell’animale all’interno della società e della famiglia, sembra ancora meglio interpretare le istanze risarcitorie, derivanti dalla condotta delittuosa in esame, che la giurisprudenza pare ritenere ancora prevalenti.
Non si può non sottolineare che potrebbe apparire contraddittoria, (si badi, in un’ottica puramente animalista), la pretesa risarcitoria del proprietario basata sul valore economico dell’animale, che soffra la perdita del legame affettivo con lo stesso. Delle due l’una: o oggetto, o essere vivente e membro familiare.
Antonio Scaramozza