Secondo uno studio italiano, la psicologia può aiutare il volontariato ad essere più responsabile. Scopriamolo insieme.
In Italia, il volontariato per prendersi cura degli animali randagi o abbandonati, è costituito da persone che amano gli animali ma che non presentano uno studio preciso per prendersi cura di questi ultimi.
Una scarsa educazione potrebbe causare un’altrettanta scarsa efficienza nel prendersi cura degli animali. Tuttavia il nostro paese non prende in considerazione alcun corso di formazione obbligatorio per chi desidera diventare un volontario.
A tal proposito, con la speranza di trovare un percorso che coinvolga più discipline, uno studio condotto da un team dell’Università di Bari ha dimostrato quanto la psicologia possa aiutare il volontariato ad essere più responsabile.
Diverse ricerche hanno dimostrato come il legame tra gli animali domestici e gli esseri umani sia caratterizzato dalla vicinanza emotiva.
È risaputo che una relazione con un cane o un gatto può essere molto vantaggiosa per l’uomo. Infatti la presenza di un animale in casa ci dona sicurezza, fiducia, amore, conforto nei momenti bui e aiuta a combattere la solitudine.
In effetti, abbiamo potuto notare come durante la pandemia sono aumentate le adozioni di animali. Ciò spiega il forte legame tra uomo e cane e quanto quest’ultimo abbia un ruolo importante nella società umana.
Inoltre è stato affermato che l’essere umano tende a presentare un comportamento di aiuto verso un animale, quando si sente emotivamente attaccato a quest’ultimo. Tale comportamento tende ad avere un senso di protezione e assistenza nei confronti dell’animale.
Tuttavia vi sono molti motivi per cui l’essere umano potrebbe presentare un comportamento di aiuto, ed è importante conoscerli per migliorare il modo di aiutare un cane o un gatto.
Infatti i motivi possono essere sia altruistici che egoistici, questi ultimi porterebbero l’uomo a non comprendere i bisogni dell’animale e a non dare un adeguato aiuto a quest’ultimo.
A tal proposito professionisti del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Bari hanno dichiarato che sono molti i volontari presenti in Puglia, che presentano comportamenti di aiuto inadeguati e non dirette alle necessità cinofile.
Da tale osservazione gli studiosi hanno effettuato uno studio per evidenziare eventuali caratteristiche psicologiche in comune tra coloro che fanno volontariato per cani randagi e non.
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Per lo studio sono stati coinvolte 122 persone, tra cui 87 donne e 35 uomini, volontari di rifugi e persone che si prendevano cura degli animali randagi.
Tali persone sono state sottoposte ad alcuni questionari che avrebbero valutato le loro caratteristiche psicologiche. Da tali test è stato evidenziato, nella maggior parte dei partecipanti dello studio, un’alta attivazione degli schemi maladattivi.
Gli schemi più evidenziati erano legati principalmente all’abbandono, alla sfiducia, all’abuso ma anche alla convinzione di essere grandi.
Gli individui che presentano tali schemi tendono ad osservare il mondo con la paura di essere abbandonati, o ingannati, e tali emozioni, secondo gli esperti, possono essere trasmesse alle persone con cui ci si crea un legame, in questo caso ai cani. Inoltre chi presenta tali schemi tende a non cambiare il modo di rapportarsi al mondo e quindi a non cambiare i propri pensieri.
Per questo motivo gli studiosi hanno deciso di sottoporre, dopo la prima analisi dello studio, i volontari di quest’ultimo ad un corso di formazione terapeutica. Tale terapia è chiamata REBT, e stimola la persona a “sostituire” pensieri disfunzionali con pensieri maggiormente “adattivi”.
Dopo tale corso, gli studiosi hanno sottoposto nuovamente i partecipanti ai test, evidenziando una differenza abbastanza significativa rispetto ai test iniziali, si è infatti evidenziato una flessibilità psicologica.
In conclusione secondo gli esperti l’essere umano tende ad utilizzare un animale domestico per necessità personali senza tener conto che il cane potrebbe soffrire.
Infatti sempre secondo gli studiosi, i nostri pensieri, le nostre paure si riflettono sui cani, che a loro volta reagiscono con comportamenti non piacevoli.
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I due esponenti principali di tale studio, Ferlisi e Minunno, attraverso quest’ultimo hanno voluto dimostrare quanto la terapia cognitiva possa migliorare il lavoro dei volontari e la vita degli animali domestici.
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