Il titolare di un’azienda agricola è stato condannato ai sensi dell’art. 727 c°2 cp per aver usato i propri cinghiali in battute di caccia simulate: ecco i dettagli della vicenda.
La giurisprudenza in materia di reati che ledono l’integrità psicofisica degli animali diventa, giorno dopo giorno, sempre più corposa e puntuale: recentemente la Cassazione ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Ivrea ha condannato il gestore di un’azienda agricola che impiegava i propri cinghiali in battute di caccia simulate.
La vicenda giudiziaria
Il titolare di un’azienda agricola del piemontese è stato condannato per aver detenuto 20 cinghiali in condizioni incompatibili con la propria natura; questo il sunto della vicenda giudiziaria arrivata in Cassazione.
Il colpevole utilizzava i cinghiali come prede per i cani che venivano introdotti frequentemente nel loro recinto, in quelle che erano delle battute di caccia simulate; gli animali, comprensibilmente, erano sottoposti ad una grave condizione di stress.
Per tali motivi il Tribunale di Ivrea condannava il titolare dell’azienda, ai sensi dell’art. 727 c°2 cp, a 3000 euro di multa; la statuizione veniva impugnata con ricorso in Cassazione, dove veniva eccepito che il giudice di merito non aveva considerato
- il verbale di sopralluogo dell’ASL che accertava che gli animali si trovavano in buono stato di salute e nutrizione;
- la mancanza di una perizia che avesse confermato lo stato di sofferenza degli animali che emergeva da quanto dichiarato da un testimone;
- l’erronea applicazione della legge sulla caccia (L. n. 157 del 1992) che consente di addestrare i cani anche con l’ausilio della fauna selvatica.
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I motivi della decisione
La Cassazione, ritenendo inammissibili i primi due motivi (perché avrebbero comportato una rivalutazione degli elementi di fatto alla base della decisione del giudice di merito, cosa che esula dalle competenze degli Ermellini), ha circoscritto il suo sindacato di legittimità al terzo.
E nel farlo ha ribadito la bontà della sentenza del giudice di prime cure, giacché non viziata da illogicità, contraddittorietà, e perché conforme ai principi espressi dal giudice di legittimità sulla materia.
Infatti la sofferenza degli animali, soprattutto delle specie più conosciute, può essere desunta anche dalla comune esperienza, e non deve essere necessariamente manifestarsi con la comparsa di uno stato patologico, ma può concretarsi anche come mero patimento.
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Come quello subito dai venti cinghiali ogni qual volta venivano introdotti all’interno del recinto i cani per le battute di caccia simulate; gli ungulati fuggivano all’impazzata per tutto il perimetro, spesso riuscendo ad evadere per scappare nei fondi confinanti.
Inoltre la Cassazione ha ribadito come assumano rilievo, ai fini dell’applicazione dell’art. 727 c°2 cp, non solo i comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali, ma anche quelli che incidono sulla loro integrità psicofisica, procurando dolore e afflizione.
Antonio Scaramozza