Uno studio ha svelato perché negli elefanti si sviluppano meno tumori e come funziona il loro superpotere contro il cancro
Dai dati raccolti in uno studio, è emerso un risultato che ha catturato l’interesse degli studiosi. La percentuale di elefanti che muore di cancro è inferiore al 5%, un valore decisamente più basso rispetto a quella degli esseri umani che si aggira intorno al 17%.
Inoltre, tale evidenza è in netto contrasto con l’ipotesi che la probabilità di contrarre un tumore sia legata al numero di cellule.
Infatti, si riteneva che ad un minore numero di cellule corrispondesse un rischio più basso di mutazioni genetiche e quindi di ammalarsi di cancro.
In accordo con tale teoria, gli elefanti dovrebbero presentare una percentuale di mortalità per cancro più alta di quella degli umani, ma i dati mostrano una condizione totalmente opposta, andando ad invalidare tale ipotesi.
Tale evidenza, invece, supportava la tesi di un docente di statistica ed epidemiologia dell’Università di Oxford, Richard Peto, il quale sosteneva che l’incidenza tumorale non è correlata al numero di cellule di un organismo.
Ma se da una parte il paradosso di Peto chiariva i risultati inattesi dello studio, dall’altra restava ancora il mistero su come facciano gli elefanti ad essere così “resistenti al cancro”. Ebbene, il nome del loro superpotere è p53, un noto soppressore tumorale.
Analizzando gli elefanti africani, gli studiosi hanno scoperto che questi possiedono ben 20 copie del gene che codifica per p53, a differenza degli esseri umani che ne possiedono soltanto uno.
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Al fine di capire il ruolo che la proteina p53 gioca nella lotta contro il cancro, l’oncologo pediatrico Joshua Schiffman dell’Università dello Utah, insieme al suo team di ricerca, ha sottoposto alcune cellule di elefante africano a radiazione ionizzante.
Gli studiosi hanno così scoperto che la proteina p53 interviene qualora una cellula venga danneggiata, partecipando al meccanismo di apoptosi: in pratica la cellula viene distrutta, impedendo la diffusione del tumore.
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Partendo dai risultati di questo studio, il nuovo obiettivo dei ricercatori è capire se questa scoperta può essere utile per combattere i tumori negli esseri umani e per aprire una strada a nuove terapie.
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